Il lato oscuro dei risotti: il test che cambia l’idea di qualità
Dai difetti del chicco alle contaminazioni, tutto ciò che i controlli hanno scoperto su Carnaroli e Basmati.

È considerato il re dei risotti, il simbolo più rassicurante della tavola italiana, il chicco che tiene insieme storia e tecnica, cucine di casa e ristoranti stellati. Eppure, il Carnaroli che troviamo sugli scaffali non è sempre ciò che promette. È questo il dato più sorprendente — e in un certo senso inquietante — del nuovo test di Altroconsumo che ha analizzato quindici marche di riso Carnaroli acquistate tra supermercati, ipermercati e discount: non tutti i prodotti che dichiarano "Carnaroli" in etichetta lo sono davvero. Il caso più eclatante riguarda uno dei risi più costosi del campione, il Riso Principe Carnaroli, che all’esame di laboratorio ha mostrato chicchi non conformi alla varietà originale, più simili a un generico riso a grani medi che al pregiato Carnaroli che gli chef difendono come una religione. Un cortocircuito tra nome altisonante e contenuto reale, che riapre il dossier più importante: quello della trasparenza.
Il test comparativo non si è fermato alla genetica del chicco. Ogni campione è stato sottoposto a verifiche rigorose previste dal D.Lgs. 131: dalla presenza di chicchi rotti e immaturi alle percentuali di varietà estranee, tutti dettagli apparentemente invisibili per l’occhio del consumatore, ma capaci di cambiare radicalmente un risotto. La struttura del chicco, la capacità di tenere la cottura, la cremosità finale: tutto dipende da un equilibrio sottile che si gioca nella materia prima, non nel prezzo. Per questo il test ha fatto emergere criticità pesanti in marchi molto diffusi — Curtiriso, Selex, Riso Scotti e lo stesso Riso Principe — che non rispettano uno o più limiti fissati dalla normativa. Un risultato netto: non basta fidarsi del brand, non basta pagare di più. La qualità, quella vera, è una questione più fine, quasi artigianale.
Sul fronte della sicurezza, almeno nel Carnaroli, arrivano segnali più rassicuranti. Negli ultimi anni il dibattito sui metalli pesanti — cadmio e arsenico in primis — ha generato preoccupazione, ma l’analisi attuale restituisce un quadro più sereno: livelli bassi, nessuna violazione dei limiti di legge e, in metà dei campioni, tracce di cadmio addirittura assenti. Anche l’arsenico è sempre rimasto sotto soglia. È un passo avanti significativo, anche se la prudenza rimane fondamentale: il riso cresce a diretto contatto con acqua e terreno, due elementi che possono diventare veicolo di contaminazione.
La partita più delicata resta quella delle micotossine e dei pesticidi, territorio invisibile al palato ma determinante per la salute. Qui il Carnaroli regge bene l’urto: nessuna traccia di aflatossine, mentre in due campioni — Delizie dal Sole (Eurospin) e Riso Principe — è comparso il DON (deossinivalenolo). Una quantità non allarmante, che non compromette l’edibilità del prodotto, ma comunque un segnale da monitorare: l’esposizione ripetuta, anche a micro-dosi, è un rischio da non ignorare. La buona notizia è che gran parte dei campioni risulta priva di residui di pesticidi rilevabili; quando presenti, si tratta di tracce minime e ben sotto i limiti.
Il quadro si fa invece molto più critico quando si passa ai risi Basmati. Qui la fotografia del test è impietosa: nessuno degli otto prodotti analizzati raggiunge una qualità accettabile, cinque presentano aflatossine e uno — il Basmati Curtiriso — supera i limiti di legge per la micotossina B1, oltre a contenere altre aflatossine della stessa famiglia. Un’indicazione chiara: il rischio non è teorico. E anche quando i valori restano sotto soglia, la presenza costante di queste sostanze, soprattutto in un alimento consumato con regolarità, apre una riflessione seria. Sul fronte pesticidi, la situazione non migliora: quasi la metà dei campioni contiene residui, in alcuni casi di principi attivi vietati nell’Unione Europea ma ancora utilizzati nei Paesi d’origine. Limiti rispettati, certo, ma la domanda rimane: basta questo per definire "sicuro" un riso che porta in sé tracce di sostanze classificate come cancerogene, mutagene o interferenti endocrini?
A confermare la criticità del settore, arrivano anche i dati europei. Nei primi sei mesi del 2025 il sistema RASFF ha segnalato 66 casi di contaminazione nel Basmati importato, principalmente da India e Pakistan: una media di una partita bloccata o ritirata ogni tre giorni. Numeri che raccontano un problema ormai strutturale, al punto che l’Ente Nazionale Risi ha definito la situazione "intollerabile", chiedendo regole più severe e controlli simmetrici per chi esporta in Europa.
Che fare, allora? Gli esperti suggeriscono prima di tutto di leggere l’etichetta con attenzione, verificare la provenienza e — soprattutto per chi consuma spesso Basmati — alternare con varietà italiane aromatiche come Apollo, Fragrance o Iarim, chicchi profumati e affusolati che richiamano la tradizione asiatica, ma coltivati con standard più controllati. Anche la conservazione domestica conta: il riso teme il caldo e l’umidità, va tenuto al riparo come si farebbe con un ingrediente prezioso.
È una questione di cultura alimentare, più che di allarmismo. Come ricorda l’alimentarista Eden Lorenzetti: «Dietro l’aroma del Basmati si nasconde un mondo di scarsi controlli e contaminazioni. Prezzo e marchio non bastano: serve più trasparenza, sicurezza e tracciabilità. Altroconsumo continuerà a vigilare, per portare in tavola un riso davvero buono, sicuro e senza sorprese». E forse è questo il punto più importante: restituire al consumatore il potere di scegliere davvero, attraverso informazioni chiare, controlli rigorosi e un’idea di qualità che non si limiti al profumo o al packaging, ma che parta da ciò che conta di più — il chicco.
















