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Deliziosi e amatissimi: gli arrosticini hanno una storia più interessante di quanto pensi

Gli arrosticini sono nati per caso, grazie all'ingegno di due pastori che avevano molta fame e pochi ingredienti a disposizione.

Arrosticini abruzzesi in cottura sulla fornacella 123rf
Arrosticini abruzzesi in cottura sulla fornacella

Per gli amanti della carne, Abruzzo fa rima con arrosticini. Morbidi, succosi e saporitissimi, vengono cotti rigorosamente alla brace, ma guai a chiamarli spiedini. Se questa prelibatezza è arrivata fino ai nostri giorni, il merito è di due pastori che, durante la transumanza, si ritrovarono ad avere molta fame ma pochissimi ingredienti a disposizione.

La storia degli arrosticini abruzzesi

Andare in Abruzzo e non mangiare gli arrosticini è un’eresia. A meno che non siate vegani o vegetariani, assaggiare i "rustell’, rustelle o arrustelle" è d’obbligo. La storia di questa prelibatezza inizia nel lontano 1830, quando due pastori del Voltigno, area che si estende tra le province di Pescara e L’Aquila, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, si ritrovarono costretti a inventare un pasto sostanzioso per sopperire alla fame.

I due pastori erano impegnati nella transumanza e avevano a disposizione pochissimi ingredienti. Così decisero di uccidere la pecora più anziana del gregge e ricavarne tutta la carne utile. Si concentrarono soprattutto sui tagli anteriori (pancia, spalla, collo, schiena e punta di petto), tagliandoli in piccoli cubetti per separarli al meglio dal tessuto connettivo.

Finita la macellazione, infilzarono la carne e il grasso sui rametti che crescono alla base del tronco d’ulivo, in dialetto abruzzese "cippe di scannill", e li cucinarono sulla brace di un falò all’aperto. Questa era l’unica cottura possibile, ma anche l’unico modo per rendere la ciccia più tenera. I due pastori rimasero piacevolmente sorpresi dal risultato: i bocconcini erano più saporiti di quanto avessero mai potuto immaginare.

Così, durante la lavanda e tosatura delle pecore quella primavera, decisero di far provare la loro ricetta agli altri pastori. Neanche a dirlo, la reazione dei colleghi fu altrettanto entusiastica e gli arrosticini divennero famosi in ogni angolo dell’Abruzzo.

Gustosi arrosticini di pecora abruzzesi 123rf

Gustosi arrosticini di pecora abruzzesi

Come sono fatti gli arrosticini?

A contendersi la paternità dei "rustelle" sono soprattutto due province, Teramo e Pescara, ma tutti concordano nell’affermare che il merito di questa invenzione culinaria sia da attribuire ai pastori che abitavano la zona tra le valli e i monti del Gran Sasso, nello specifico l’area che si estende dalla Piana del Voltigno (Villa Celiera) al confine tra le province di L’Aquila, Teramo e Pescara.

Gli abruzzesi si trovano d’accordo anche sulla preparazione degli arrosticini, oggi considerati uno dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani PAT. La base è la carne ovina, pecora o castrato, di cui circa il 25% composto da grasso. I pezzetti di carne hanno forma cubica, con uno spessore di circa un centimetro per lato e lunghezza di 20/30 centimetri.

È bene sottolineare che oggi si trovano in commercio anche altre varianti dei classici "rustelle", con carne di tacchino, pollo, maiale e perfino di fegato. La grandezza è sempre la stessa, il grasso è presente e la cottura non cambia.

Come si cuociono?

Gli arrosticini devono essere rigorosamente cotti sulla brace di legna. Un tempo si usavano i falò all’aperto, mentre oggi esiste uno strumento apposito, che in base alla zona viene chiamato in modo diverso: fornacella, "furnacella", "rustillire", "canala" o "canalina". È una griglia lunga e stretta, costruita proprio per garantire la cottura uniforme della ciccia e mantenere freddo lo spiedino di legno.

Solitamente, prima di essere appoggiati sulla fornacella, i "rustelle" vengono spennellati con un rametto di rosmarino intinto in un mix di olio, aceto e sale. Si mangiano caldi, con le mani, accompagnati da "pane ‘onde", ossia pane abbrustolito condito con olio extra vergine d’oliva e sale, e un bel bicchiere di vino rosso, magari un Montepulciano.

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